WORKS


Settimo Cielo

Galleria La Nuova Pesa 2011

Salvatori e il settimo cielo

di Arnaldo Colasanti

Una stretta al cuore: il quadro sovrasta la pittura. Ma la sofferenza sembra ormai l’unico mezzo per superare la sofferenza. Guarda questi cerchi che girano lungo le venature del legno: è una marea che torna creta e fossile. Certo, l’oro di questa pittura è ancora prezioso e sfolgorante. Possiede, però, una luce solitaria, senza oggetti: è la luce che illumina il proprio annientamento – una luce che è la stanchezza infinita della grazia. Quell’oro diffuso non riemerge, ma sembra decrescere: è pelle ritratta; i polpastrelli al freddo graffiati dagli anni. Ma la pittura, cancellandosi, finisce per risucchiare quell’oro e se ne appropria: è l’oro opaco di un ricordo o forse quello, intentato, di un meriggio dell’anima, ocra e perlaceo, abbandonato all’aria, come un mese di Maria. Nel settimo cielo, Beatrice perde il sorriso: da quell’istante nasce un silenzio fatto di suoni inattesi e incomprensibili. A tratti, viene da pensare che Settimo cielo di Giuseppe Salvatori narri di quella perdita e di quel silenzio fragoroso, da cui il mondo non si sveglierà mai più. Ecco, il quadro sovrasta la pittura. E’ il tremore – una sottile delusione – a stringere il disegno sul legno, a farlo scolar via. Eppure, mai come in questo caso, sembra che sia quello stesso tremore a rendere necessario l’oro, quasi che la perdita fosse affidata ad una decorazione del tempo, ad un moto pulviscolare di musica e vuoto. Guarda a sinistra la radice di quell’arbusto forte: è un tronco che ruota e fiorisce e penetra e fuoriesce dalla visione, prendendo su di sé la vastità della sabbia smossa da una spugna sull’arenile. Nota i cerchi a basso: labili e fantastici fino ad essere gommosi e balbuzienti, come le escrescenze lontane di rose che sembrano cenere. E nota quelli invece aperti, in alto, come una vela aguzza e metafisica, quasi onde fulminate dalla luce. Al posto d’onore dello stile di Salvatori siede, come sempre, la composizione e l’esattezza. Come dire Carrà, un cielo bagnato di ruggine, il suo mare di malachite, i pini dell’immaginazione. E così Burri (soprattutto per la melodia, per la chiave musicale primitiva che regola la composizione) ma anche, sottilmente, il magico Willem De Kooning – quel suo osservare scivolando lungo i riflessi o, per dire meglio, lo slancio del pennello (anche tutto di Salvatori) che dichiara un primato di sicurezza nello stesso attimo in cui sopraggiunge la piega, la curva, la ritrazione: un cedimento dell’emozione.

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Settimo Cielo

Galleria La Nuova Pesa 2011

Salvatori e il settimo cielo

di Arnaldo Colasanti

Una stretta al cuore: il quadro sovrasta la pittura. Ma la sofferenza sembra ormai l’unico mezzo per superare la sofferenza. Guarda questi cerchi che girano lungo le venature del legno: è una marea che torna creta e fossile. Certo, l’oro di questa pittura è ancora prezioso e sfolgorante. Possiede, però, una luce solitaria, senza oggetti: è la luce che illumina il proprio annientamento – una luce che è la stanchezza infinita della grazia. Quell’oro diffuso non riemerge, ma sembra decrescere: è pelle ritratta; i polpastrelli al freddo graffiati dagli anni. Ma la pittura, cancellandosi, finisce per risucchiare quell’oro e se ne appropria: è l’oro opaco di un ricordo o forse quello, intentato, di un meriggio dell’anima, ocra e perlaceo, abbandonato all’aria, come un mese di Maria. Nel settimo cielo, Beatrice perde il sorriso: da quell’istante nasce un silenzio fatto di suoni inattesi e incomprensibili. A tratti, viene da pensare che Settimo cielo di Giuseppe Salvatori narri di quella perdita e di quel silenzio fragoroso, da cui il mondo non si sveglierà mai più. Ecco, il quadro sovrasta la pittura. E’ il tremore – una sottile delusione – a stringere il disegno sul legno, a farlo scolar via. Eppure, mai come in questo caso, sembra che sia quello stesso tremore a rendere necessario l’oro, quasi che la perdita fosse affidata ad una decorazione del tempo, ad un moto pulviscolare di musica e vuoto. Guarda a sinistra la radice di quell’arbusto forte: è un tronco che ruota e fiorisce e penetra e fuoriesce dalla visione, prendendo su di sé la vastità della sabbia smossa da una spugna sull’arenile. Nota i cerchi a basso: labili e fantastici fino ad essere gommosi e balbuzienti, come le escrescenze lontane di rose che sembrano cenere. E nota quelli invece aperti, in alto, come una vela aguzza e metafisica, quasi onde fulminate dalla luce. Al posto d’onore dello stile di Salvatori siede, come sempre, la composizione e l’esattezza. Come dire Carrà, un cielo bagnato di ruggine, il suo mare di malachite, i pini dell’immaginazione. E così Burri (soprattutto per la melodia, per la chiave musicale primitiva che regola la composizione) ma anche, sottilmente, il magico Willem De Kooning – quel suo osservare scivolando lungo i riflessi o, per dire meglio, lo slancio del pennello (anche tutto di Salvatori) che dichiara un primato di sicurezza nello stesso attimo in cui sopraggiunge la piega, la curva, la ritrazione: un cedimento dell’emozione.