Ninanana

Fornace Canova, Roma

8 Maggio – 29 Maggio 2021

Testo di Emanuele Trevi

Carissimo Pino, sono sempre gli accostamenti tra oggetti incongrui e spaiati quelli che rimettono in gioco la psiche, che invece soffoca e deperisce nell’abitudine, nelle distinzioni prevedibili, nelle finte illuminazioni. E così una mattina ancora molto calda di fine estate, quando mi hai mostrato, quasi simultaneamente, il tuo nuovo quadro e la poesia di Casanova sul sonno di Nana, ho provato il brivido delle verità talmente inaspettate da risultare, in fin dei conti, quasi eccessive. Mi sono insomma sentito all’interno di una storia, che non è esattamente una trama, c’è sempre anche una trama ma non è l’essenziale, semmai l’essenziale è uno spazio, un campo magnetico nel quale le cose del mondo convergono come se si fossero date appuntamento lì, di fronte a noi, fin dall’inizio dei tempi. E noi chi siamo, all’interno di queste singolari e irripetibili configurazioni della vita? È vero che tutto ciò che siamo stati, e tutto ciò che non siamo stati, preme sul singolo atto, sul singolo momento, e li disintegra. Ma la legge fondamentale di ogni storia realmente significativa è che noi non sappiamo mai se ne siamo i protagonisti, oppure figure secondarie passate lì per caso, o ancora semplici spettatori. L’uomo è un animale privo di un ruolo preciso nel cosmo. Ma queste cose le sai bene. Noi siamo vivi, e dunque lottiamo con tutte le nostre forze contro la dispersione universale. Mettiamo in atto complessi meccanismi di evocazione, raduniamo cose distanti nella misura di uno sguardo, come rametti e frammenti di corteccia da ardere. I tuoi quadri possono facilmente far pensare a una superficie tersa, riflettente, e le loro figure sembrano specchiarsi al loro interno come fossero frammenti della volta celeste, caselle di uno zodiaco. Dunque sono mobili, sottoposte a un moto di rotazione che le allontana e chissà quando ritorneranno, così che della loro apparizione, in quella determinata combinazione, rimane solo il riflesso catturato dal tuo quadro. Quest’ultima forma che hai trovato è straordinariamente capace di accogliere i segnali che provengono dall’alto: è una gondola che riposa su tranquille acque notturne, un’ellissi, un occhio aperto sullo spazio interno, una fessura. Un luogo così immobile, così assorto nel suo equilibrio, che coppie di lucertole danzano nei suoi riflessi come se avessero dimenticato il loro abituale senso del pericolo. In alto sta passando qualcosa che assomiglia a un’ala, ferma nel vuoto nella pausa tra due colpi. Ed è veramente incredibile quanto tutto questo assomigli alla poesia di Casanova, come se da questi due linguaggi sovrapposti, la pittura e la poesia, venisse fuori una terza lingua, né figura né parola, una lingua puramente emotiva. Cosa fa Casanova? Come vuole rappresentarsi in questi versi ? La sua è una posizione servile, lui veglia sul sonno dell’amante, è il diaframma, lo scudo tra il rumore del mondo e questo sonno, e lo fa con tanta energia, con tante cerimonie, che alla fine, strofa dopo strofa, finiamo per crederci anche noi, al sonno di Nana, e cominciamo a leggere, se così si può dire, in punta di piedi, come se temessimo di disturbare quel miracolo muto al centro delle parole. Casanova vuole dirci che il corpo addormentato dell’amante è uno specchio di Alice, una gondola di notte, un luogo di transiti celesti, un’origine del mondo. Una sfera di cristallo come quella delle favole, forse: ma a patto di capire che questi prodigi non servono affatto per conoscere il futuro o il passato, ma il più indefinibile degli enigmi, che è sempre l’attimo presente. Emanuele